HomeCompetenze 4.0Virtual team: come gestirli con lo strabismo manageriale  

Virtual team: come gestirli con lo strabismo manageriale  

Leggi le riviste ⇢

Ti potrebbero interessare ⇢

Gaia Fiertler

Lo chiamano “ossimoro”, o “strabismo” manageriale e consiste nel gestire processi divergenti tra loro, ma necessari nei team virtuali: regole e relazioni, obiettivi ed emozioni. A tal fine è stato messo a punto il modello di leadership RAMP (Relation, Accountability, Motivation and Process): relazioni, responsabilità, motivazione e processi.

I team virtuali hanno una complessità che aumenta al crescere delle condizioni di virtualità. Possono essere distribuiti nello spazio, nel tempo per fusi orari diversi o per “job sharing” e possono far parte di organizzazioni diverse che collaborano a un progetto comune.

In ogni caso, che questi gruppi soddisfino una o più di queste condizioni, impongono una doppia sfida a chi li guida, ai cosiddetti “leader virtuali”: garantire da un lato la coesione e la motivazione del team e, dall’altro, il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Per ottenere questo duplice risultato serve una sorta di “strabismo manageriale”, che tenga insieme relazione emotiva e processi stringenti i quali, di primo acchito, sono componenti distanti tra loro.

L’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato come l’uso abilitante delle tecnologie consenta interazioni operative e progettuali a distanza, ma come siano carenti di dimensione umana, emotiva, relazionale, la quale serve comunque alla riuscita e al funzionamento del gruppo e per costruire un rapporto di fiducia e di comunicazione tra colleghi, tra capo e collaboratore e, più in generale, tra azienda e collaboratore.

virtual team
Massimo Ramponi

Andrea Martone, direttore del Centro su Strategic Management e Family Business della LIUC Business School e Massimo Ramponi, docente LIUC Business School, nel loro libro “Virtual Team. Nuove sfide manageriali tra libertà e regole” (Franco Angeli, 2022) propongono il modello di leadership RAMP, basato su Relation, Accountability, Motivation and Process.

«Il futuro ha radici nel passato - affermano gli autori - Dal laboratorio sociale che stiamo vivendo emerge che il virtual team è caratterizzato da una polarizzazione, perché le nuove tecnologie spingono verso nuovi modelli di collaborazione e lavoro, ma diventano preponderanti bisogni tradizionali: umanizzazione, partecipazione, motivazione. Ora più che mai il futuro si realizza se la gestione delle persone a distanza riesce a mettere insieme elementi che sono in contraddizione tra loro».

Oltre la pandemia

La pandemia ha accelerato dei processi già in corso, ma ha per lo più tradotto in remoto pratiche e processi tipici della presenza, senza realizzare un vero e proprio Smart Working che implica autonomia e responsabilizzazione, potendo lavorare “anywhere” e “anytime” come dicono gli americani. Le ricerche scientifiche degli autori si basano per lo più sulla letteratura pre-covid in previsione di un New Normal che tenga conto dell’esperienza e dei vantaggi dei team virtuali, ma stabilizzi anche il concetto di Smart Working, oltre il prevalente e forzato Remote Working degli ultimi due anni.

 virtual team
Andrea Martone

«Per il post-pandemia l’equilibrio migliore sarebbe l’alternarsi tra presenza (3 giorni alla settimana) e distanza (2 volte alla settimana), ma se così non fosse e prevalesse ancora il lavoro da remoto, allora a maggior ragione i capi di questi team virtuali dovranno acquisire delle peculiari capacità di gestione per tenere insieme esigenze divergenti e assicurarsi l’efficacia dei team di lavoro», spiega Martone.

Come dare autonomia sui tempi e modi, ma definire bene processi e obiettivi e motivare e responsabilizzare su risultati intermedi e finali, che vanno monitorati con indicatori di risultato agili, gli OKR (Objectives and Key Results). Paradossalmente, serve organizzare i processi in modo ancora più preciso e puntuale quando i team sono distribuiti, per coordinare in modo efficace i flussi operativi e informativi. In pratica, più si è distanti più serve precisare “chi fa” “cosa” e i diversi livelli di responsabilità.

«Lo scopo non è il controllo del lavoratore, ma facilitare le attività del team, responsabilizzare dando gli strumenti per gestire la complessità organizzativa e attuare una serie di accorgimenti per favorire, al tempo stesso, la dimensione emotiva e relazionale», prosegue Martone. Alcuni studi hanno evidenziato le difficoltà di gestione dei virtual team proprio rispetto alla capacità di coordinamento, perché la dispersione rende più difficile l’integrazione dei flussi operativi; rispetto al diversity management, perché non sempre si gestiscono bene le differenze culturali  e rispetto al bisogno di appartenenza, perché il distanziamento porta a un senso di isolamento.

Cosa serve a un team virtuale per funzionare

Per il buon funzionamento di una team virtuale, quindi, serve l’implementazione di due tipi di processi: quelli orientati agli obiettivi e all’efficienza (Task Process) e quelli orientati alla motivazione e alla socialità (Socio-emotional process). La capacità di tenerli insieme è condizione imprescindibile per garantire l’operatività del team ed è appunto lo “strabismo” gestionale richiesto ai leader virtuali.

I team virtuali tendono infatti a focalizzarsi sul compito e meno sulle relazioni, si incontrano on-line e interagiscono solo funzionalmente e, di conseguenza, generano legami deboli tra le persone, che però nelle attività professionali ad alta intensità relazionale sono una condizione imprescindibile di efficienza. Occorre allora adottare accorgimenti per ovviare alla debolezza fisiologica di questi team, attraverso azioni di team building, una leadership diffusa e partecipativa, favorendo la coesione, lo sviluppo della fiducia e l’umanizzazione dell’interazione, come i processi di “virtual warming”.

Di fatto, serve che venga formalizzata l’informalità, che non si crea naturalmente online, poiché mancano i momenti casuali di incontro, di contatto fisico e di comunicazione non verbale dell’ufficio. Vanno proprio previsti momenti di socializzazione on-line, in cui lo stesso responsabile racconti qualcosa di personale, mostri per esempio degli oggetti privati e commenti notizie di attualità.

Serve anche introdurre comportamenti abituali in cui i manager si mettano in gioco per primi nel mostrare il lato informale del lavoro da remoto: lasciando la telecamera accesa e lo sfondo visibile anche con qualche elemento di disturbo, come un bambino che arriva, un animale domestico o un citofono che suona. «D’altronde, non ci sono elementi di distrazione anche in ufficio? Questi sono accorgimenti che aiutano a umanizzare l’interazione virtuale e ad avvicinare le persone», precisa Martone.

D’altro canto, va mantenuta alta l’attenzione anche sulla gestione dei processi (process management), che proprio per il successo del lavoro 4.0 devono essere ben definiti e formalizzati. «Le ragioni sono facilmente spiegabili: se per i membri di un team virtuale le occasioni di interazione sono limitate, allora per garantire un coordinamento di successo occorre che ciascuno sappia, con un buon grado di dettaglio, cosa deve fare e soprattutto quali risultati ci si aspetti da lui. Non c’è una volontà di controllo che contraddirebbe l’approccio di autonomia e responsabilizzazione del lavoro agile, ma di puro coordinamento dei progetti.

Tra l’altro, le regole riducono l’incertezza e aumentano la fiducia nei gruppi sociali, migliorando così la produttività. Ecco perché bisogna individuare obiettivi, tempi e risultati intermedi che devono essere rispettati da tutti. I team leader virtuali devono motivare continuamente i membri a dare il meglio, ma una buona relazione virtuale non è sempre sufficiente, per questo devono essere individuate delle “milestone” con degli indicatori di risultato ben precisi e stringenti (OKR) che ingaggino le persone», spiega Martone.

Bisogna lavorare anche sul clima di fiducia, che diventa una vera sfida nei team virtuali perché è difficile valutare l’affidabilità di un collega che non si incontra di persona. Il leader deve aiutare a superare le differenze culturali, che favoriscono l’incomprensione trai i suoi membri; a far emergere le competenze tecniche, che se non sono riconosciute portano le persone a diffidare l’una dell’altra e a costruire sistemi di coordinamento efficaci. Infine, bisogna sviluppare al meglio la comunicazione, perché una buona interazione tra le persone è la base per costruire legami di fiducia tra i membri di una comunità.

Anche questa, nei team virtuali mediati dalla tecnologia, va strutturata in un certo modo rispetto a mezzi e contenuti, che si influenzano a vicenda. «Tecnologie e comunicazione vivono un rapporto di influenza reciproca: la tecnologia è il motore del rapporto virtuale, mentre la comunicazione è il carburante che permette al motore di muoversi. L’una senza l’altra non possono performare», commenta Martone.

La comunicazione va comunque dosata, usata bene e resa essenziale, evitando i rischi della infodemia che crea confusione e mina coesione, fiducia, orientamento. «È un falso mito quello che, per favorire l’integrazione, si debba comunicare di più essendo a distanza. In realtà bisogna comunicare meglio, essere chiari ed essenziali nei contenuti e sfruttare tutte le potenzialità dei canali di comunicazione, sia nelle modalità sincrone live, sia in quelle asincrone, in cui si gestiscono i contenuti in autonomia e si interagisce “in differita”», conclude Massimo Ramponi. In tutto questo, il leader deve cercare di essere in ascolto e a disposizione delle sue persone più di prima, compatibilmente con la sua stessa vita privata.

Virtual team: come gestirli con lo strabismo manageriale   - Ultima modifica: 2022-01-27T14:58:48+01:00 da Gaia Fiertler