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Smart working post pandemia: riorganizzazione del lavoro o semplice remote working?

Che forma sta prendendo lo smart working nel post-pandemia? Che modalità prevarrà? Il suo futuro sembra a un bivio, tra smart working vero basato su autonomia e orientamento ai risultati e smart working di facciata, assimilabile al remote working. Risultati e riflessioni dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.

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Gaia Fiertler

Oggi, dopo l’esteso ricorso al remote working a tempo pieno durante i due anni di pandemia, con esperimenti di Smart Working solo nelle aziende con la cultura più pronta, i lavoratori dipendenti possono essere suddivisi in tre tipologie: gli Smart worker (27%) con vari tipi di flessibilità e orientamento ai risultati, i “remote non smart worker” (21%) con la esclusiva flessibilità del lavoro da remoto e gli “on-site worker” (52%), la maggioranza, che lavorano solo in azienda. Di questi, i più soddisfatti per benessere sia psicologico sia relazionale sono i primi, i veri smart worker, mentre i remote worker sono meno contenti degli stessi lavoratori che devono recarsi in ufficio tutti i giorni.

In particolare, 1 su 3 gli smart worker hanno un elevato benessere relazionale, che arriva al 42% come benessere psicologico, percentuali che crollano rispettivamente al 18% e al 29% nei remote worker e sono al 25% e al 32% negli on-site worker. Lo stesso trend si conferma in alcune sotto-dimensioni: il 56% di chi ha più forme di autonomia dichiara di avere un’ottima relazione con il capo e con i colleghi (57%) e un forte legame con l’organizzazione (41%), mentre solo il 36% dei remote worker con il capo e con i colleghi e il 25% con l’organizzazione, percentuali che risalgono un po’ con i lavoratori in sola presenza: il 46% ha un’ottima relazione con il capo, il 43% con i colleghi e il 33% con l’organizzazione.

Il solo lavoro da remoto, infatti, se non inserito in una cornice più ampia di flessibilità e revisione dei processi, non porta benefici né a livello personale né organizzativo, ma può invece condurre a esiti più negativi persino rispetto a chi non ha alcuna forma di flessibilità come i lavoratori on-site per produttività e benessere e quindi per capacità di attrarre, coinvolgere e trattenere i lavoratori, che è il grande tema oggi con le nuove generazioni in particolar modo.

Gli smart worker sono infatti i più soddisfatti anche a livello di engagement, quella forma di coinvolgimento che “trascende uno stato di soddisfazione e motivazione contingente e si traduce in un legame profondo con l’organizzazione”, come viene descritto dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Tuttavia, solo l’11% complessivo dei lavoratori risulta del tutto ingaggiato, mentre l’81% lo è solo mediamente. Anche in questo caso gli smart worker hanno i livelli più elevati di ingaggio rispetto agli altri: 13% contro 6% dei remote worker e 12% dei lavoratori solo in presenza.

Fonte: Osservatorio Smart Working, Politecnico di Milano

«La diffusione delle iniziative di smart working negli ultimi due anni ha portato numerose organizzazioni e persone a confrontarsi con un modo di lavorare radicalmente diverso rispetto a quello adottato prima della pandemia. Spesso, tuttavia, l’applicazione delle nuove modalità di lavoro si è concretizzata con l’introduzione del solo lavoro da remoto, che ha consentito di gestire le emergenze e supportare il work-life balance delle persone, ma che non rappresenta un ripensamento del modello di organizzazione del lavoro.

Mariano Corso

È il momento di riflettere su cosa sia il “vero smart working”, che deve essere l’occasione per attuare un cambiamento più profondo, incentrato sul lavoro per obiettivi e una digitalizzazione intelligente delle attività», commenta Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Polimi.

Non solo la maggioranza dei lavoratori non è contento delle proprie relazioni professionali e non ha un forte senso di appartenenza con l’azienda, ma ci sono rischi anche per gli smart worker per lo stress diretto e indiretto che può provocare l’uso delle tecnologie (il cosiddetto “tecnostress”) e per l’eccesso di lavoro (il cosiddetto “overworking”).

Questi rischi sono più presenti proprio negli smart worker: il 31% soffre di tecnostress, contro il 24% dei “remote non smart” e il 29% degli on-site worker; così pure il 13% ammette l’overworking, che scende al 10% nei remote e al 12% in quelli che lavorano solo in presenza. In ogni caso, il 95% dei primi vorrebbe continuare a lavorare in smart working anche in futuro, lo vorrebbe l’87% dei remote worker e il 66% degli on-site, con un numero medio desiderato di giornate da remoto di 11 giornate al mese

Com’è il quadro attuale tra grandi imprese, pmi e PA?

Nel complesso si riduce il numero di lavoratori che usufruiscono del lavoro ibrido, quasi 500mila in meno rispetto al 2021, con un calo in particolare nella PA (-33%) e nelle pmi (-19%), mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese (+4%) che, con 1,84 milioni di lavoratori, contano circa metà degli smart worker complessivi.

Oggi i lavoratori da remoto sono 3.570 milioni e per il prossimo anno si prevede un lieve aumento fino a 3,63 milioni, grazie al consolidamento nelle grandi imprese e a un’ipotesi di incremento nel settore pubblico. Al tempo stesso, non decolla la media delle giornate organizzabili fuori ufficio: 9,5 la media mensile nelle grandi, 4,5 nelle pmi e 8 nella PA, contro il desiderio espresso di arrivare a 11 giornate al mese da remoto.

Lo smart working è ormai presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), mentre c’è una contrazione nelle pmi (dal 53% al 48%). Secondo l’Osservatorio, a frenare in queste realtà è la cultura organizzativa che privilegia il controllo della presenza e percepisce lo smart working come una soluzione di emergenza. Rallenta anche la diffusione nella PA, che passa dal 67% al 57% degli Enti. In questo caso a pesare sono soprattutto le disposizioni del precedente governo che hanno spinto a riportare in presenza la prestazione di lavoro, ma per il futuro si prevede un nuovo aumento.

Lo smart working fa risparmiare?

Fiorella Crespi

Eppure è stato calcolato che, visti gli attuali rincari, anche l’impatto sui costi energetici dello smart working sarebbe sempre più positivo, in particolare per le aziende. Due giorni a settimana, per esempio, permetterebbero di ottimizzare l’utilizzo degli spazi, isolando aree inutilizzate e riducendo i consumi, con un risparmio potenziale di circa 500 euro l’anno per ciascuna postazione.

Se a questo si associasse la decisione di ridurre gli spazi della sede del 30% con il desk sharing e un ripensamento in chiave social, il risparmio potrebbe arrivare fino a 2.500 euro l’anno a lavoratore. A sua volta, il lavoratore che operi due giorni a settimana da remoto risparmia sui mille euro all’anno per effetto della diminuzione dei costi di trasporto, risparmio che si riduce a una media di 600 euro per i maggiori consumi domestici di luce e gas.

«Nel complesso lo smart working comporta una generale riduzione dei costi sia per i lavoratori sia per le aziende che lo adottano. In questo momento di grave tensione su costi energetici e inflazione, questo risparmio potrebbe essere impiegato per fronteggiare la crisi e sostenere la redditività aziendale e il potere d’acquisto dei lavoratori. Le organizzazioni potrebbero valutare di restituire ai lavoratori una parte del risparmio ottenuto, ma nella nostra rilevazione oggi solo il 13% delle aziende del campione prevede per i lavoratori che lavorano da remoto dei bonus o rimborsi che non siano buoni pasto», spiega Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working.  

Uffici smart per dare senso alla presenza

Gli uffici sono al centro del cambiamento in atto. Le aziende stanno investendo nella rivisitazione degli uffici per motivare i dipendenti a tornare, anche parzialmente, e trovare significato nel lavoro in presenza: più verde, aree informali, modulabili in base alle diverse esigenze e spazi “identitari” per incoraggiare il dialogo e la collaborazione con colleghi e stakeholder.

Molte aziende che stavano già sperimentando il nuovo modello organizzativo prima del Covid erano già intervenute sugli spazi comuni in ufficio, ma per altre aziende è un aspetto nuovo da gestire. Infatti, nonostante tutti i limiti che ancora si riscontrano nel lavorare da remoto in modo più o meno smart, ci sono state resistenze a riprendere abitudini pre-Covid con il ritorno in ufficio, per il 68% delle grandi aziende e per il 45% della PA.

Un altro fenomeno emergente è una maggiore diffusione e capillarità di sedi sul territorio anche con l’utilizzo di ambienti esterni, come business center e spazi di coworking, proprio per far sentire la vicinanza ai dipendenti, ma lasciando autonomia con strumenti adeguati (non per tutti la casa è l’ideale per lavorare).

Di fatto, la larga maggioranza delle grandi aziende è già intervenuta sugli immobili (39%), li sta compiendo o li ha in programma per il prossimo anno (27%) e mostra interesse per il futuro (16%). Anche nelle pmi il 39% è già intervenuto, ma cala l’interesse per l’immediato (solo il 10%) e per il futuro (12%), mentre il 39% non è interessato (a differenza del 18% delle grandi). La mancanza di interesse cresce ancora di più nella Pa, spesso in edifici storici soggetti a vincoli, solo il 22% è intervenuto sulla riorganizzazione in chiave smart degli uffici, il 10% ha in corso progetti o entro un anno e il 17% ci penserà in futuro.

Le aziende premiate

È interessante notare come le aziende private premiate agli Smart Working Award 2022 abbiano lavorato molto anche sugli spazi per renderli adatti al nuovo modo di concepire il lavoro. In particolare, Baker Hughes, la multinazionale tecnologica per il settore energetico, nel Campus di Firenze con 4mila persone in più edifici, già dal 2016 offriva lo smart working come flessibilità spaziale e temporale, ma dopo il primo lockdown con il 95% delle persone a casa ha sentito l’esigenza di rinforzare l’identità di gruppo anche attraverso gli ambienti di lavoro, rendendoli sempre più luoghi per le persone, secondo le loro differenti necessità e preferenze e dove favorire le attività di gruppo.

«Sono stati disegnati spazi secondo il concetto di “Activity based Working”, che fossero accoglienti, inclusivi e sostenibili non solo rispetto all’ambiente, ma anche rispetto all’equilibrio tra vita privata e attività lavorativa», racconta Francesca D’Angelo, Human Resources Partner di Baker Hughes. Per esempio, sono state introdotte stanze per l’allattamento; soluzioni per le diverse  disabilità e bagni per il gender neutro. Inoltre, l’azienda ha voluto essere aperta e riconoscibile anche dall’esterno, con murales visibili da fuori realizzati dagli studenti di alcune scuole di Firenze. Oggi oltre il 50% della popolazione aziendale utilizza la modalità ibrida del lavoro.

A sua volta StoreIS, pmi padovana di consulenza e-commerce, che consentiva il lavoro da remoto già due volte alla settimana prima della pandemia, oggi chiede di recarsi in ufficio almeno una volta a settimana. Ha agito molto sugli spazi per ricreare la convivialità, favorire la collaborazione e far fluire la creatività dei collaboratori, per esempio con uffici flessibili e componibili perché, se necessario, ci sia posto per più persone, come in occasione delle attività di formazione con scrivanie dotate di rotelle.

La media di lavoro fuori ufficio è di tre giorni alla settimana, le postazioni si prenotano visto che meno di un terzo della superficie è dedicata a scrivanie individuali, mentre è molto frequentata la caffetteria, sulla scorta della vecchia macchinetta del caffè, per dialogare, confrontarsi e risolvere problemi. L’azienda fornisce anche benefit per la formazione, con un budget a persona per formarsi dove e come preferisce, con l’unica accortezza di condividere poi l’esperienza con i colleghi per diffondere la conoscenza in azienda e stimolare lo scambio tra le persone.

«Noi diamo la massima libertà di movimento, perché gestiamo le attività e non il tempo. Con numerose attività e soluzioni facciamo in modo che le persone siano felici di venire in ufficio e non si sentano obbligate», spiega Francesco Boschian, Chief Operating Officer StoreIS. Per sentirsi parte di una squadra ogni nuovo assunto in StoreIS ha un Buddy, un collega che lo segue per sei mesi per aiutarlo a integrarsi in modo naturale; si trasmette la cultura del feedback costruttivo e una volta al mese si dedica tempo al team building e alla formazione. È stata predisposta anche una foresteria per dare alloggio ai diversi collaboratori ormai fuori sede come residenza per le giornate in cui si recano in azienda. «Da noi lo smart working è libero, ma è bilanciato dal lavoro per obiettivi e da molto team building, e comunicazione interpersonale», conclude Boschian.

Infine, per la PA è stata premiata la Presidenza del Consiglio dei Ministri per un progetto di lavoro agile avviato tre anni fa, che ha riscritto le policy interne, tenendo conto di tutti i vincoli giuridici e tecnici di una pubblica amministrazione. Il progetto è stato supportato da incontri di formazione orientati al lavoro per obiettivi e alle soft skill e, operativamente, è stato reso possibile da una piattaforma digitale e da un applicativo che consente di monitorare le attività da remoto, che favorisce il flusso di comunicazione, gli accordi individuali e il tempismo del supporto tecnico e amministrativo. Inoltre, tutti gli strumenti tecnici sono integrati nel gestionale dell’HR. L’adesione è molto alta, del 67%, a una modalità che prevede il lavoro agile due volte alla settimana, in modo flessibile e combinabile secondo le proprie esigenze.

Smart working post pandemia: riorganizzazione del lavoro o semplice remote working? - Ultima modifica: 2022-10-28T09:31:48+02:00 da Gaia Fiertler