Qualcuno ancora non se ne è accorto, qualcuno non ci crede, qualcuno pensa che certi ragionamenti valgano solo per le grandi aziende, eppure lo scenario economico-produttivo è davvero cambiato in modo radicale negli ultimi anni. Chi, per varie ragioni, non l'ha ancora compreso, parla del periodo attuale come "crisi”, ignorando che la crisi è invero una discontinuità con il passato - un periodo di transizione – e come tale non può concettualmente durare degli anni. La crisi è arrivata e passata e ci ha lasciato una nuova congiuntura, che oramai deve essere presa come un dato di fatto.
I fattori-chiave per competere, oggi, sono “prendere possesso” ed “estrarre valore” – cioè ricchezza - dalla conoscenza. Per questo motivo, spesso, ci si riferisce al periodo attuale con il termine "economia della conoscenza". Apparentemente, sembra un termine così lontano dal mondo dell'impresa; invece, riassume efficacemente due grandi cambiamenti che hanno scandito il riassetto di molte aziende e che hanno inciso drammaticamente sul modo di fare business.
Primo cambiamento: lo sviluppo di nuovi prodotti richiede multidisciplinarietà e integrazione di tecnologie da diversi settori. Pertanto, è necessario scambiarsi “conoscenza” e collaborare. Conseguentemente, la conoscenza ha assunto un ruolo “principe" ed è oggi il vero differenziale - vale a dire ciò che permette di “scegliere” - tra due o più soggetti (aziende).
Parallelamente, e questo è il secondo cambiamento, gli impianti, le attrezzature e gli asset materiali in genere sono diventati commodities. Pertanto, è facile produrre a basso costo e addirittura delocalizzare, anche in modo molto frammentato. Conseguentemente, impianti, attrezzature e asset materiali non sono più una barriera per l'ingresso sul mercato di nuovi concorrenti: servono nuovi asset (immateriali) per competere. Questo nuovo “eco-sistema” è l’habitat ideale per la Proprietà Intellettuale, dato che “prendere possesso” ed “estrarre valore” dalla conoscenza sono nel suo DNA.
Da un lato, infatti, i diritti di proprietà intellettuale (brevetti, marchi, design, diritto di autore) conferiscono un’esclusiva e dunque un monopolio, consentendo per loro stessa natura di “prendere possesso” della conoscenza. Dall'altro lato, i diritti di Proprietà Intellettuale favoriscono le alleanze commerciali e di R&D e preservano l'unicità dei prodotti, consentendo di “estrarre valore (ricchezza)” dalla conoscenza. Nella visione moderna e attuale, dunque, la Proprietà Intellettuale genera profitto (attraverso licenze o cessioni di diritti), consente di stringere alleanze commerciali (mediante cross-licensing, conferimenti in M&A, patent pools) e permette alleanze di R&D (con enti pubblici o privati); la “governance” di tali alleanze si ottiene, di norma, proprio con accordi basati su diritti di Proprietà Intellettuale.
Ovviamente, nello scenario attuale, la Proprietà Intellettuale mantiene ancora le funzioni tipiche della visione più tradizionale, vale a dire quelle di bloccare la concorrenza e di garantire la libertà di azione (freedom to operate). Oggi, chi non parla più di “crisi” ha interiorizzato la Proprietà Intellettuale a tutti i livelli aziendali: commerciale, finanziario e “corporate”, con la capacità di distinguersi dalla concorrenza, per il fatto di offrire al mercato qualcosa di unico.
Già negli anni ’40 del secolo scorso, il pubblicitario statunitense Rosser Reeves teorizzava l’importanza di presentarsi sul mercato con una Proposta Unica di Vendita (o USP, Unique Selling Proposition), vale a dire con un’affermazione in grado di spiegare in che modo un prodotto o servizio è unico rispetto alla concorrenza.
Va da sé che per poter formulare una Proposta di Vendita che sia seriamente unica, l’azienda deve intraprendere un percorso di innovazione, che la conduca verso prodotti e servizi innovativi rispetto alla concorrenza. Questo percorso di innovazione potrà condurre a novità tecnologiche, estetiche, artistiche o di marketing. Inevitabilmente, i concorrenti tenteranno di copiare l’innovazione proposta, generando un appiattimento del mercato, che annacquerà la Proposta Unica di Vendita, facendole perdere l’originaria unicità.
In questa dinamica ricorrente, un’azienda che ha interiorizzato la Proprietà Intellettuale a “livello commerciale”, cioè che è stata in grado di “far sedere allo stesso tavolo” chi si occupa di valori commerciali e chi si occupa di Proprietà Intellettuale, sarà in grado di contrastare efficacemente le iniziative dei concorrenti attraverso l’utilizzo di diritti di brevetto, marchio, design e copyright, tutti diritti IP precostituiti in modo lungimirante sin dall’inizio del percorso di innovazione. Per definizione, la Proprietà Intellettuale difende qualcosa di unico (tecnologia, estetica, nomi commerciali, know-how), quello stesso “qualcosa di unico” che è l’oggetto della Proposta Unica di Vendita. Dunque, interiorizzare la Proprietà Intellettuale a “livello commerciale” significa creare le condizioni per proteggere le caratteristiche uniche di un prodotto/servizio, in modo da preservare l’unicità dell’offerta commerciale e quindi, in ultima analisi, il valore (euro!) di vendita.
Una volta interiorizzata la Proprietà Intellettuale a livello commerciale è pressoché naturale e immediato ritrovarsi con un portafoglio di diritti IP. A questo punto è necessario interiorizzare la Proprietà Intellettuale anche a “livello finanziario”, vale a dire “far sedere allo stesso tavolo” chi si occupa di aspetti finanziari e chi si occupa di Proprietà Intellettuale, in modo da cogliere le opportunità offerte dal sistema bancario e dalla normativa tributaria. Nell’economia della conoscenza, infatti, il portafoglio di diritti IP racchiude una ricchezza che rappresenta un attivo patrimoniale (spesso “sommerso”) per l’azienda e che, se opportunamente sfruttato, può apportare enormi benefici alle casse aziendali (vedasi recente normativa c.d. “Patent-Box”).
Infine, interiorizzare la Proprietà Intellettuale a “livello corporate” significa “far sedere allo stesso tavolo” chi si occupa di “governance” aziendale e chi si occupa di Proprietà Intellettuale, in modo tale che il portafoglio di diritti IP venga utilizzato per affermare il posizionamento aziendale nelle trattative con terze Parti e per incrementare il potere negoziale nella definizione di alleanze strategiche.
In conclusione, lo scenario economico attuale basato su un’economia della conoscenza impone alle aziende di “pensare IP”, cioè di vedere al di là degli aspetti immediati e materiali della propria offerta commerciale. Chi, a priori, ritiene che la Proprietà intellettuale siano soldi sprecati, probabilmente non ha alcunché di unico che valga la pena di essere tutelato.
Marco Lissandrini, Bugnion SpA
MARCO LISSANDRINI è ingegnere aerospaziale, laureato al Politecnico di Milano. Lissandrini lavora in Bugnion S.p.A. - azienda che opera nel settore della consulenza in proprietà industriale e intellettuale - dal 2000, diventandone membro del Consiglio di Amministrazione nel 2015. Dal 2010 è il direttore della sede Bugnion di Verona. Si occupa di brevetti, marchi, design, nomi a dominio e attività stragiudiziale. È regolarmente nominato Consulente Tecnico di parte in procedimenti giudiziari in materia di brevetti d'invenzione e modelli di utilità.
Marco Lissandrini, Bugnion SpA