Dalla nuova edizione dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano emerge uno spreco di competenze, che restano nascoste e inespresse. Un’azienda su tre infatti non fa ancora un’analisi delle competenze necessarie a 3-5 anni e nemmeno l’assessment di quelle presenti. Un altro 35% lo fa solo per specifiche skill o in caso di emergenza.
Eppure, oltre la metà dei collaboratori (1.500), nell’indagine svolta con Doxa, è convinta di avere competenze e capacità utili anche per altri ruoli. Ma il 27% non si sente valorizzato e il 32% teme di avere skill presto obsolete con difficoltà a ricollocarsi senza adeguato aggiornamento.
Lo sviluppo delle competenze interne risponde al mismatch di profili e aumenta benessere e ingaggio
Nel frattempo, sul mercato non si trovano facilmente profili qualificati (per il 78%), benché una su due preveda una crescita dell’organico nel 2025. Le cause sono per lo più legate allo skill mismatch (carenza di competenze tecniche) e all’aumento di rifiuti da parte dei candidati (27%).
Circa una nuova posizione su quattro riguarda professioni digitali: specialisti in AI, Big Data Management & Data Analytics e Cybersecurity & Data Protection.
Così, su tutti e tre i profili cresce l’investimento sullo sviluppo interno, a discapito della ricerca sul mercato esterno.
Puntare sulla valorizzazione delle risorse interne può essere una via, che tra l’altro migliora il clima aziendale. Dall’indagine con Doxa emerge che nelle aziende “skill based”, cioè basate sulle competenze e non solo sul ruolo e l’anzianità e con uno sviluppo continuo delle stesse, c’è una propensione più bassa a dimettersi (36% versus 41%).
Raddoppia il senso di benessere fisico, relazionale e psicologico (dal 10% al 18%) e, soprattutto, i “full engaged” passano dal 17% al 42%.
L'AI acceleratore nello sviluppo delle competenze
In questo disallineamento tra percezione dei manager e percezione dei dipendenti, le nuove tecnologie possono giocare un ruolo cruciale per guidare la job rotation interna e, in generale, per supportare organizzazioni “skill based”.
L’intelligenza artificiale aiuta a creare il giusto match tra opportunità di formazione e competenze, attitudini e interessi. Rende la formazione continua e davvero personalizzata e supporta il monitoraggio delle competenze nel tempo, collegandole alle necessità aziendali attuali e future.
Tuttavia, l’utilizzo di soluzioni di intelligenza artificiale a questo scopo è ancora molto ridotto. Solo il 5% analizza i dati per mappare le competenze attuali (il 33% dichiara che introdurrà soluzioni dedicate). Solo il 2% fa analisi predittive delle competenze emergenti (il 25% dichiara che se ne occuperà). Il 13% utilizza già soluzioni per suggerire contenuti formativi o comportamenti da adottare e il 20% dice che lo farà.
Orientare la formazione verso il mercato
Mauro Nori, Consigliere della Corte dei Conti e Capo di Gabinetto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in occasione dell’Osservatorio ha presentato il nuovo portale SIISL (Servizio informativo per l’inclusione sociale e lavorativa) per favorire l’incontro tra domanda e offerta di formazione e lavoro.
La piattaforma digitale collega i venti sistemi formativi regionali e le Agenzie per il Lavoro con le posizioni vacanti per dare all’utente strumenti diretti nella ricerca di un impiego o percorsi di formazione. Un assistente digitale basato su AI guida nella navigazione per trovare il percorso appropriato a ciascuno.
Nori ha dichiarato la disponibilità di risorse per potenziare orientamento, addestramento e formazione orientata ai fabbisogni delle imprese. «Le università, ma già le scuole medie e superiori devono aprirsi al mercato. Orientiamo le risorse sulle competenze richieste, in un meccanismo a ciclo continuo. Abbiamo un sistema ancora con delle rigidità: rispetto alle scuole professionali e all’alternanza c’è chi dice ancora che l’istruzione non deve creare lavoratori, ma uomini, come se il lavoro non comprendesse l’istruzione. Dobbiamo abbandonare modelli culturali datati: i 18 mila studenti che si diplomano nei professionali in Italia trovano lavoro in 4-6 mesi. In Francia sono 600mila, in Germania 880mila», ha dichiarato Nori.
Ma come stanno i lavoratori?
Nelle imprese italiane solo il 17% è pienamente ingaggiato e appena il 10% “sta bene” a livello fisico, relazionale e mentale, secondo). L’11% dei lavoratori ha cambiato posto di lavoro nell’ultimo anno (11%) e ha intenzione di farlo entro i prossimi 18 mesi (30%).
Ma l’instabilità economica e geo-politica rende oggi più rischioso cambiare lavoro, così le persone rinunciano a cercare una condizione migliore e “si disconnettono” mentalmente (nuovo fenomeno di “Detachment”).
Aumentano infatti i “quiet quitter”, che restano al loro posto facendo il minimo indispensabile senza essere emotivamente coinvolti (14% su 12% dell’anno scorso). Si fanno anche meno colloqui (dal 58% al 52%). Crolla la quota di chi si è pentito di aver cambiato posto di lavoro (dal 56% al 20%), anche se la maggior parte continua a essere insoddisfatto.
Al contempo, si afferma una crescente ricerca di protezione e di stabilità economica. Dopo il benessere, che rimane la principale spinta al cambiamento, tornano in primo piano criteri più “tradizionali” come le tutele del contratto, la retribuzione e i benefit (al primo posto assistenza sanitaria e buoni pasto).
«Tra i lavoratori italiani si rileva una crescente frustrazione, attribuibile alla percezione di instabilità del mercato del lavoro, accentuata da conflitti e crisi globali e da retribuzioni spesso inadeguate al costo della vita. Così, a fianco al benessere e all’equilibrio, che continuano a essere le priorità delle persone, si sta affiancando una crescente ricerca di sicurezza e protezione. In questo contesto, la sfida principale per le Direzioni HR nel 2025 è lavorare sul senso e il significato del lavoro, cercando di ovviare al senso di precarietà crescente. In un’epoca di grande trasformazione, tra ricambio generazionale e rivoluzione tecnologica, l’HR deve tracciare la rotta del cambiamento delle organizzazioni, che oggi passa da AI, nuove strategie e nuove competenze», afferma Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice.
Si investe in AI, ma manca una governance HR
Quasi una su due le aziende hanno già investito in AI a supporto dei processi (45%) e il 60% a supporto della produttività individuale. Tuttavia, le direzioni HR faticano ancora a guidare questa trasformazione e a seguirne l’uso al proprio interno. Nell’ultimo anno, infatti, un terzo dei lavoratori (il 32%) ha utilizzato l’AI nelle proprie attività (+23%), percentuale che sale al 43% per i white collar e al 54% per la GenZ.
Tuttavia, si tende a usare soluzioni personali o gratuite reperite on line (85%), non quelle fornite dall’azienda in 2 casi su 3. Di fatto solo un’azienda su sette (14%) analizza l’impatto sulle attività lavorative, mentre manca una governance nell’utilizzo che i lavoratori fanno nell’uso più o meno quotidiano. Non c’è un approccio sistemico nell’adozione, dall’analisi dei rischi alle policy, alle attività di formazione, al monitoraggio, all’analisi dell’impatto.
«Le aziende italiane stanno investendo in AI, ma le Direzioni HR faticano ancora a governare questa trasformazione, a cominciare da una scarsa comprensione di come i lavoratori la stiano già utilizzando nelle loro attività. Il rischio è di assistere alla diffusione di nuovi strumenti e comportamenti senza una chiara strategia e senza capacità di guidarne gli impatti. L’intelligenza artificiale, da semplice strumento per migliorare efficienza e qualità del lavoro dei singoli, deve essere concepito come strumento strategico per riprogettare il lavoro, automatizzando attività, creando efficienza, ripensando ruoli, competenze e modelli per liberare tempo ed energie, con minori carichi di lavoro e mansioni più attrattive e sostenibili», sostiene Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice.
In area strettamente HR, il 45% delle organizzazioni dichiara di aver investito in soluzioni di AI nell’ultimo anno, soprattutto nella Talent Attraction. Gli investimenti sono soprattutto in software per ottimizzare la comunicazione a potenziali candidati e/o nella scrittura degli annunci (31%); tool per analizzare e classificare i CV ricevuti (20%) e assistenti virtuali per fissare i colloqui (9%).
Le barriere a un maggior utilizzo AI in ambito HR
Gli HR riconoscono un aumento di efficienza e produttività (56%) nella propria area, un miglior bilanciamento dei carichi di lavoro (29%), un supporto alle decisioni (22%) e un miglior supporto e assistenza ai dipendenti (41%), per esempio con assistenti virtuali per creare feedback e rispondere a domande amministrative.
Tuttavia, i costi elevati nell’implementazione di questi strumenti sono la principale barriera, per ora, a una maggiore applicazione in ambito HR. Seguono i timori sulla sicurezza informatica (37%), sui rischi associati a una violazione delle normative (dalla privacy all’AI Act) e sulle implicazioni etiche e i bias (20%). Ma gli HR ammettono anche di non avere abbastanza conoscenza e consapevolezza di queste applicazioni (29%), né competenze interne né dati di qualità su cui fare analisi sofisticate.
I benefici per i lavoratori: tempo e produttività
Sul fronte dei lavoratori, chi usa strumenti AI al lavoro lo fa per il 20% delle attività, con un risparmio di 30 minuti al giorno (26% di tempo), che arrivano a 50 minuti per chi li utilizza quotidianamente. Il tempo “guadagnato” è usato soprattutto per svolgere le stesse attività con maggiore produttività (60%) o attività a maggior valore aggiunto (53%), ma anche attività extra-lavorative, impegni personali e familiari (44%).
L’attività principale oggi è la ricerca di informazioni con evidente risparmio di tempo. I benefici vengono indicati in miglioramenti di performance e produttività (91%), in qualità del lavoro (86%) e in capacità di apprendimento, mentre tra i rischi spicca il timore di indebolire le relazioni interpersonali e di sviluppare una dipendenza tecnologica.