Alla fine, l’accordo c’è stato. E pare sia definitivo. Domenica 27 luglio 2025, dopo mesi di tensioni, UE e USA hanno raggiunto un punto comune. La tanto agognata intesa. L’imposizione reciproca dei dazi al 15%, sulle merci. Ma di “reciproco” l’accordo ha solo di nome, perché l’UE sembra non voler “reagire”. Non applicherà, quindi, i contro-dazi sui beni d’oltreoceano.
Intanto, attraverso la lettera dell’11 luglio 2025, inviata sabato 12 luglio, Trump è riuscito a portare a casa il risultato evidentemente già programmato. L’UE in principio sperava di azzerare le imposizioni, attraverso la diplomazia economica. Ma poi si era tarata sul 10%, considerato un pacifico compromesso. La lettera, invece, annunciava un’imposizione del 30%.
E, come nelle migliori trattative, con il rilancio di Bruxelles al ribasso si è raggiunto il punto d’accordo. Che potrebbe sembrare tutto sommato migliore di quel 20% annunciato il 2 aprile 2025. Ma che, di fatto, è un fallimento, per l’intera Unione. Per una serie di ragioni. Non solo economiche ma proprio di prestigio. Perché non è solo una questione di percentuali, ma di sbilanciamento tout court.
Cosa stabilisce l’accordo USA - UE sui dazi?
Partiamo dalla reciprocità. Ai beni statunitensi in entrata nell’Unione veniva applicato un dazio medio dello 0,9%, in precedenza. Ora, invece, (in attesa di non si sa cosa), Bruxelles non imporrà misure equivalenti. Pertanto, non incasserà nulla sui 93 miliardi di euro di beni statunitensi in entrata. E non imporrà dazi sui servizi forniti dalle aziende americane.
È stato concordato un dazio zero-per-zero su una serie di prodotti strategici. Tra questi rientrano tutti gli aeromobili e i relativi componenti, alcuni prodotti chimici, alcuni farmaci generici, apparecchiature a semiconduttore, alcuni prodotti agricoli, risorse naturali e materie prime essenziali.
Resteranno al 50% i dazi su acciaio e alluminio Made in Europe, esportati negli USA. I farmaci – i quali in un primo momento sembravano salvi – saranno gravati da una gabella del 15%. Mentre viene concesso uno sconto all’automotive: si passa dal 25 al 15. Un abbattimento importante se si pensa che l’export italiano del settore vale oltre 4 miliardi di euro annui, con la componentistica che arriva a 1,2.
E questo 15%, per quanto risulti pesante, racchiude in sé il “fattore certezza,” che forse è quello più apprezzato e importante. Uno scenario definitivo che può offrire una maggiore progettualità. Dunque, sebbene resti determinante il ruolo dell’acciaio nella supply chain, il nuovo (ridotto) dazio favorirà soprattutto Germania e Italia, i primi due Paesi fornitori in ambito UE del mercato USA. Una buona notizia, ogni tanto.
Lo scenario macroeconomico post-Dazi
Allo stesso tempo, però, i due Paesi saranno quelli maggiormente colpiti dal nuovo scenario impositivo, in termini di PIL. Il Prodotto Interno Lordo tedesco potrebbe contrarsi di 0,29 punti, mentre quello italiano dello 0,17%. Il francese, invece, mostrerebbe una decrescita minima (-0,11%), mentre la media europea si attesterebbe sul -0,21%. E quello USA? Secondo le stime del Kiel Institute toccherebbe il -1,32%.
C’è poi un altro aspetto da evidenziare. La svalutazione del dollaro. Dall’insediamento di Trump, la moneta verde ha perso il 13% rispetto all’euro. Questo significa che il cittadino americano avrà un potere d’acquisto meno forte. Fattispecie che, unita all’aumento dei prezzi dei beni in entrata, penalizzerà le vendite di Made in Italy. Perché, di fatto, il dazio graverà per il 90% sull’ultimo tassello della catena di vendita: importatori e consumatori.
I prodotti europei, quindi, risulteranno costosi: a conti fatti, tra svalutazione e imposizione daziaria, gli americani si troveranno a spendere di più. Un aggravio che, per l’esportatore italiano, si traduce in 21 punti percentuali (e non 15). Logicamente, poi, tutto dipenderà dal prodotto. Dalla nostra abbiamo che i beni italiani, negli USA, sono tendenzialmente di alto livello. Dunque, difficilmente sostituibili. Si spera.
Dazi USA: cosa aspettarsi dal futuro?
Secondo le dichiarazioni del Presidente USA, i dazi contribuiranno alla crescita delle entrate fiscali. Indubbiamente. Si potrebbe passare dai 7 ai 91 miliardi di USD annui. Tuttavia, i modelli macroeconomici sostengono che, con un’imposizione del 15%, l’export europeo si contrarrà di circa 30 punti. Dunque, i miliardi sarebbero 66, e non 91. Sicuramente però superiori ai precedenti 7. Su questo, nulla quaestio.
Ma all’UE il suddetto calcolo matematico non deve interessare. Bruxelles è tenuta piuttosto a riprendere credibilità. E a concentrarsi sul suo mercato, ponendo attenzione alle sue nuove vulnerabilità. La prima riguarda la trade diversion, la diversificazione del commercio. Come aveva ricordato Mario Draghi al Parlamento europeo, il 18 febbraio 2025.
Tutto ciò che non può dirigersi verso il mercato statunitense rischierà di invadere l’Europa. Parliamo quindi di beni cinesi, indiani, turchi e provenienti dai Paesi ASEAN. E allora, senza piangere sul latte versato, va subito predisposto un piano d’azione. Perché, prima di pensare ai 600 miliardi di investimenti negli USA e all’acquisto dei 750 miliardi di energia da Washington, è forse il caso di concentrarsi anche su altro. Ovvero sulle imprese e sulle perdite effettive che potranno subire.
