Una nuova mossa a sorpresa sui dazi USA che nessuno si aspettava. O forse sì, nell’ottica del “tutto e il contrario di tutto”. In realtà appena una settimana fa il Presidente Trump aveva assicurato che non ci sarebbe stata alcuna proroga.
E invece, nella giornata del 7 luglio 2025, cambia (nuovamente, per l’ennesima volta) lo scenario. E cresce l’incertezza. Sebbene, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, i 21 (e più) giorni “concessi” ai privilegiati offrono la possibilità di addivenire a una migliore contrattazione.
Come nel caso dell’UE. Mentre tutti gli altri Paesi dovranno accettare le imposizioni unilaterali, scoprendo la gabella attraverso la famosa lettera spedita via social media. Partita ieri (7 luglio 2025), per raggiungere i posti più disparati del mondo. Con aliquote dal 25 al 40 per cento. Insomma, quel famoso Liberation Day atteso per il 2 aprile scorso, si sposta sempre più avanti.
E, di sicuro, non si può parlare di liberazione, per il mondo. Che vive ancora con lo spettro dell’incertezza. Fluttuando in uno stato di sospensione che complica le prospettive economiche. Mentre le decisioni estemporanee rendono difficile ogni tipologia di pianificazione, tanto a livello economico quanto politico. Intanto l’UE, pazientemente, continua lungo la via della diplomazia.
Le nuove imposizioni daziarie: dal 25% al 40%
Intanto, qualche certezza c’è. O, almeno, così sembra al momento. Si parte il prossimo 1° agosto 2025, con un dazio del 25% alle merci in entrata negli USA, provenienti da Giappone e Sud Corea.
Una concessione benevola, inferiore a quanto effettivamente sarebbe stato necessario, per eliminare il divario nella bilancia commerciale statunitense. E neppure definitiva, ma variabile a seconda del rapporto che si verrà a costruire in base alle nuove imposizioni.
È questo il trattamento riservato ai due Stati asiatici, tra i primi destinatari delle missive trumpiane. La situazione non è migliore per gli altri Paesi. Il 25% a Kazakhstan, Malaysia, Tunisia. Il 30% a Bosnia e Sud Africa, che sale al 32% per l’Indonesia, al 35% per Bangladesh e Serbia, e al 36% per Cambogia e Thailandia. In pole position, negativamente sul podio, Laos e Myanmar, con un dazio del 40%.
Possibili dazi aggiuntivi per gli amici dei Paesi BRICS
In arrivo penalizzazioni anche ai Paesi pro-BRICS+: un +10% al dazio base (a quello, cioè, annunciato o in fase di comunicazione). Questo perché, secondo Trump, il Gruppo dei 10 Paesi (i 5 storici più i 5 entrati nel gennaio del 2024) ostacolerebbe l’equilibrio commerciale mondiale a svantaggio dell’America. D’altra parte, i BRICS+ non hanno usato mezze misure nel criticare la scelta doganale degli States.
Durante il 17esimo vertice annuale di Rio de Janeiro, domenica 6 luglio 2025, hanno espresso un fermo dissenso sia riguardo all’attacco contro Teheran, che in merito all’aumento dei dazi. Incoerenti con le regole della WTO. Così i 10 hanno definito le imposizioni americane, considerate una “minaccia” per il commercio globale.
“Tariffs” ree, cioè, di frenare gli scambi tra Paesi e di poter interrompere le catene di approvvigionamento globali. Nel gruppo, però, c’è la Cina che, esponendosi, rischia di buttare all’aria mesi di contrattazioni. Ma Pechino, di fatto, non appare intimorita. Anzi. Si dice fiduciosa nella tenuta della propria economia, forte di risorse adeguate a fronteggiare le pressioni esterne. Sarà così, davvero?
L’Unione Europea, i dazi e la lettera (che nessuno vorrebbe ricevere)
Sono state settimane senza tregua per Bruxelles. Mentre la comunità imprenditoriale restava con il fiato sospeso. Forse, tutto sommato, questo 9 luglio lo si attendeva davvero come un’alba dopo una lunga notte. Con le migliori aspettative, per poter mettere un punto a un tempo che iniziava a sembrare infinito, destabilizzante e a tratti irritante.
E invece no. L’escalation della situazione, seguita poi dai negoziati diplomatici, non è giunta al capolinea. E mentre gli altri Paesi hanno ricevuto la famosa lettera, è in fieri una “soluzione negoziata con gli USA”. Prioritaria, secondo Valdis Dombrovskis, Commissario UE all’Economia.
Ma, da come fanno trapelare fonti europee, all’Unione sarà concesso un trattamento preferenziale, e non una imposizione unilaterale senza contraddittorio, come fatto con gli altri Paesi. Nessuna missiva a sorpresa, e una contrattazione che potrebbe concludersi con il già noto +10% impositivo. Una percentuale che, comunque, risulterebbe squilibrata secondo Bruxelles, ma che sembra il male minore.
La deadline del 1° agosto e la chimera “zero dazi”
Di fatto, però, sono solo parole. Perché al momento nessun rappresentante si espone. E non è stato ufficializzato alcun accordo. La paura maggiore prende il nome di “compensazione”. Si teme questo. Perché per quanto quel 10% pesi, sicuramente appare più leggero delle imposizioni destinate agli altri Paesi. In tutti i casi, l’obiettivo ora è portare a casa un accordo quadro. Per evitare maggiori danni al commercio europeo.
Pertanto, appurato che la chimera “zero dazi”, ambìta da Bruxelles, appaia irraggiungibile, si prova a minimizzare le perdite. L’accordo a cui si spera si arriverà (a questo punto prima del 1° agosto 2025) potrebbe anche non essere un’intesa di dettaglio, bensì un’intesa di principio. Che quindi demanderà a un ulteriore negoziato da sviluppare nei prossimi mesi. Affinché si possa raggiungere un traguardo migliorativo.
L’UE probabilmente non avrà troppe scelte: nella migliore delle ipotesi porterà a casa quel 10%, nella peggiore un’imposizione asimmetrica. Con i dazi unilaterali statunitensi, non controbilanciati dagli europei. E sarebbe un duro colpo non tanto per le imprenditorie (che in entrambi i casi sarebbero gravate) ma per la credibilità dell’Unione. C’è poi anche un’ultima alternativa possibile e non auspicabile: l’imprevedibilità. Con lo spettro del “No Deal” dietro l’angolo.
